Il viaggio in treno per Roma (o Napoli) procedeva sempre tranquillo; ogni tanto ci lasciavamo fermi fuori dalle stazioni intermedie per dare la precedenza agli altri treni, se il nostro era “speciale”. Gli scompartimenti erano tutti pieni, il fumo delle sigarette era denso come la nebbia d’inverno fra Piacenza e Milano, panini e birre erano già finiti prima di Roma. Solitamente a Roma ci facevano scendere a Settebagni, oppure alla stazione Tiburtina (anche se mi ricordo una volta che ci fecero arrivare a Termini, un vero casino…). Il treno rallentava prima di entrare in stazione, sul binario a noi riservato si erano già schierati i celerini: molti ragazzi si svegliavano allora vedendo fuori dai finestrini le minacciose sagome dei poliziotti già in tensione. Appena scesi ci radunavamo verso l’ingresso, la stazione era deserta: arrivare a Roma alle 10 del mattino era come essere lì all’alba. Cantando ci incamminavamo verso l’uscita, sotto la sguardo dei celerini immobili mentre passavamo a pochi centimetri da loro: casco ben allacciato, foulard tirato sul viso, manganello e scudo in mano, nervosismo. Per uscire dalla stazione di Settebagni dovevamo salire per le scale, dove inspiegabilmente la polizia ci bloccava; altri ragazzi continuavano ad affluire da dietro, lo spazio diventava poco, i ragazzi davanti erano troppo vicini al cordone dei celerini, la tensione aumentava ancora, era questione di un attimo: improvvisamente una massa scura si muoveva colpendo senza sosta, tonfi sordi si sentivano fra le urla, la carica era partita: pochi minuti di scontro fra celerini armati e ragazzi che rispondevano con calci e pugni: era come mettersi a fare a botte con un muro. Tornata la calma, apparente, ci caricavano sugli autobus e ci portavano allo stadio: qui ci aspettavano ora anche carabinieri e finanzieri, da ogni parte vedevo manganelli in mano a chi altro non aspettava che spaccarceli in testa. E infatti una volta in curva, dopo perquisizioni asfissianti, alla prima torcia lanciata dai romanisti (o laziali) del settore vicino partiva indiscriminata un’altra carica contro di noi, salutata dagli olè del pubblico romano. Caricavano dall’alto, alle spalle, non c’era tempo di vederli arrivare, erano inarrestabili: spesso tanti ragazzi per cercare di evitare le manganellate ruzzolavano giù dai gradoni; bastava qualche minuto, ancora una volta quel rumore insopportabile di manganelli su teste e schiene, e la calma ritornava in curva: le botte cominciavano a lasciare il segno e non solo sulla pelle. Ora che i celerini pestano operai, studenti, precari, manifestanti si alza forte il coro di indignazione contro la brutalità della polizia; coro che era di approvazione se non di gioia quando quelle stesse manganellate piovevano sulle teste vuote degli animali che andavano allo stadio, di quegli ultrà che perdevano ogni diritto di cittadinanza non appena indossavano una felpa e una sciarpetta al collo. State attenti perché il manganello non fà distinzione, picchia anche chi non c’entra o chi è in buona fede e ora che gli stadi sono vuoti non gli resta che sfogarsi nelle piazze…